Un cristiano può giocare ai videogiochi?

“…eppure mancavamo o nello scrivere o nel leggere o nello studiare meno di quanto si esigeva da noi. Non che mi difettasse, Signore, la memoria o l’intelligenza: tu me ne volesti dotare a sufficienza per quell’età; ma mi piaceva il gioco e ne ero punito da chi, a buon conto, non si baloccava meno di me. Senonché i balocchi degli adulti sono chiamati affari, mentre quelli dei fanciulli, per quanto simili, sono puniti dagli adulti. E alla fine non c’è pietà per i fanciulli, o per gli altri, o per entrambi. Un giudice onesto potrebbe approvare le busse che mi si davano, poiché, se da fanciullo giocavo alla palla, il gioco m’impediva di apprendere rapidamente le lettere, Grazie a cui da grande avrei eseguito ben più tristi giochi.”
(Agostino, Confessioni).

Negli ultimi giorni un video di Alberto Ravagnani dal titolo ”I VIDEOGIOCHI fanno bene o fanno male?” ha suscitato la mia disapprovazione ma anche la mia riflessione sul tema, che a quanto pare è di interesse per i sacerdoti oltre che per i genitori e naturalmente i ragazzi.

Io credo tuttavia che già questo sia un errore, considerare ”I VIDEOGIOCHI” un tema a sé, come una meraviglia extraterrestre che ha fatto irruzione nel nostro mondo apportando qualcosa di insolito e incomprensibile, da accogliere con entusiasmo o respingere con timore. Questo immagino sia dovuto soprattutto dalla discrepanza tra la generazione dei genitori, cresciuta senza videogiochi, e quella dei figli, che incomprensibilmente per i primi frequentano questo medium con modalità di cui questi non hanno esperienza. Si fa fatica a capire perché i ragazzi si appassionino tanto a queste cose, e di conseguenza nascono timori e paure, che poi minano la capacità di molti adulti di gestire la situazione e accompagnare il ragazzo a farne un uso equilibrato.

Per riuscire a capire, specie da un punto di vista cristiano, diventa dunque importante iniziare a farsi delle domande, a partire da quella fondamentale: non ”fanno bene o fanno male?” ma ”sono una cosa buona o cattiva?” o meglio ancora: ”sono un piacere lecito o un peccato?”

Credo che non sia difficile rispondere a questa domanda. Anzi, che sia intuitivo. Giocare ad un videogioco non è peccato (salvo casi eccezionali e fortunatamente non molto diffusi da queste parti come sex toys virtuali e compagnia) in quanto non contravviene a nessuno dei comandamenti o dei precetti della nostra fede, anche se naturalmente, come tutti i piaceri, espone al rischio di cadere nei vizi dell’accidia e della gola. Questo non basta certamente a trasformarlo automaticamente in un comportamento virtuoso: c’è forse del merito nell’accendere la playstation? Certamente no, non è un’opera di bene.

Passiamo dunque alla domanda successiva: è bene quindi per un cristiano che passi del tempo a giocare con i videogiochi?

In assoluto credo di no. Se il cristiano è chiamato alla vita di perfezione, a lasciare tutto, a farsi povero per seguire Gesù prendendo la propria voce… Credo non ci sia spazio per i videogiochi. Lo dico con onestà e a malincuore, perché intendo proseguire sulla via di perfezione e a me i videogiochi piacciono. PERÒ. C’è un però. Avendo già provato a fare qualche goffo passo su questa via, accompagnato anche dalla direzione di persone ben più esperte di me, posso dire che sarebbe un errore su questa base affermare che un cristiano NON DEBBA giocare ai videogiochi. Alla santità ci si arriva un passo alla volta, e se il primo passo è la rinuncia ai piaceri leciti si rischia, come chi parte senza essersi allacciato le scarpe, di fare un bocca-avanti. Nel mio percorso è capitato ad un certo punto che mi chiedessi (sempre accompagnato da qualcuno più esperto di me) se dovessi tagliare del tutto questa cosa, metterla da parte perché ”divenuto uomo, ciò che era da bambino l’ho abbandonato” (1Cor 13,11). In quel momento la risposta ponderata e condivisa è stata un ”No.”, in gran parte perché la mia fede non era evidentemente ancora così matura. Come ho fatto a capirlo? Semplice, armeggiavo ancora con scarso successo contro inclinazioni che invece erano realmente peccaminose, che presentavano per me un pericolo molto concreto, e se non si riesce a stare lontani dal peccato mortale è semplicemente velleitario credere di avere la forza di allontanarsi da vanità più innocue. La domanda inoltre discendeva in realtà da un pregiudizio moralistico, appreso nella mia infanzia, che non mi permetteva di capire che ciò che avrei dovuto superare non era certo ”il videogioco” ma semmai la vanità: non mi sarei fatto ad esempio problemi nello spendere la stessa quantità di tempo e di energie nel leggere libri, guardare film, o tante altre cose che pure non sono fonti di grazia. In cosa giocare con il computer sarebbe stato peggio di quelle cose?

A prescindere dalle mie personali idiosincrasie, il fatto è che stiamo parlando appunto di un piacere, un bene lecito. Sicuramente rinunciare a tali cose è un mezzo di santificazione, e per questo nella nostra storia tante persone si sono dedicate ai digiuni, alle veglie e hanno fatto voto di castità. Diversamente da tanti miei contemporanei, credo che siano pratiche ancora molto attuali e importanti, nobili e fruttuose. Ma lo sono se fatte bene, e quindi principalmente con generosità, e non certo per ricavare tempo per altri passatempi altrettanto ”inutili” o peggio ancora per il peccato (questa sarebbe proprio una diavoleria!). Non serve a nulla digiunare se poi ci si lascia trascinare dalla superbia, e per questa o per la debolezza fisica si finisce per concedersi alla mormorazione – specialmente nei confronti di chi è colpevole di non digiunare abbastanza – si diventa intrattabili e di scandalo ai fratelli. Non si diventa come Santa Caterina da Siena in un giorno, e se qualcuno ci è riuscito non è certo perché lo ha deciso lui o lei. Specialmente per chi vive nel mondo, rinunciare alle cose buone deve essere una chiamata, e ancora meglio sarebbe se fosse una necessità dovuta alla chiamata a spendere tempo ed energie per fare altro. In nessun caso si deve passare per ”io non lo faccio perché sono forte e bravo”.

Inoltre, come può far bene mangiare un piatto di pasta o leggere un libro, può far bene persino giocare ad un videogioco, per quanto non si tratti naturalmente di un bene morale. Quando sono stato in vacanza quest’anno ho scelto di spendere del tempo giocando al ”nuovo” God of War che mio fratello aveva comprato e alla fine in tutta coscienza posso dire che è stato del tempo speso bene, anche se magari non ottimamente. Un tempo che ho passato contemplando un’opera dell’ingegno umano a mio parere davvero notevole, occasione per riflettere (specialmente come scrittore ed educatore in questo caso, grazie alla superba scrittura del personaggio di Atreus e del suo rapporto col padre) e per benedire il Signore per chi ha lavorato con tanta passione su un prodotto che ad un ragazzo può far bene, specialmente se qualcuno lo aiuta a leggere tra le righe.

Concludo questa sezione dicendo questo: certamente il Signore può chiedere di rinunciare a questo bene per un bene più grande, ma questa è un’esigenza del percorso nella vita di perfezione e non una necessità imprescindibile per vivere una vita buona. Insomma, si può essere buoni cristiani anche se si è appassionati di videogiochi. E oso dire che Gesù, che veniva considerato un mangione e un beone, oggi potrebbe essere visto da qualcuno anche come un perditempo, perché non rinuncerebbe di farsi prossimo ai nostri ragazzi nemmeno se questo significasse doversi sedere sul divano con il controller in mano insieme a loro. Anzi, di certo ne approfitterebbe per raccontare qualche parabola.

Ma ammetto che spesso non è ciò di cui ho parlato quel che interessa a molti, anche se a mio parere è la parte più importante. Spesso il discorso è più incentrato sui rischi, sulla tendenza che hanno questi apparecchi a trascinare i ragazzi in dipendenze o comportamenti disturbanti, tutto fondato sull’indubbia problematicità dello sfruttamento (sempre più frequente e intenso nel mondo videoludico) di meccanismi che giocano sulla produzione di dopamina a basso costo: il videogioco sarebbe un piacere troppo facile da ottenere, un po’ come quello raggiunto con la pornografia, potenzialmente alienante e desensibilizzante verso piaceri più ”difficili” ma più fruttuosi.

Io penso che siano rischi reali, e non ho intenzione ora di addentrarmi nel loro studio perché di formazione sono un insegnante e non un neurologo o uno psicologo. Certamente bisogna fare attenzione, conoscere i fattori di rischio di tante problematiche e saper riconoscere i campanelli d’allarme; nella mia esperienza tuttavia (sia come ex acquirente compulsivo di giochi di ruolo digitali a pochi euro che stanno ancora sullo scaffale a prendere polvere – ad un certo punto ho deciso di non comprarne più e ho iniziato a comprare compulsivamente libri che non ho tempo di leggere – sia come uno che ha avuto il privilegio di vivere a contatto con i ragazzi e i loro genitori spesso fin troppo preoccupati per questa cosa) mi sono accorto che dove c’è il pensiero che i videogiochi siano ”un problema” del ragazzo la ragione è spesso, come dicevo all’inizio, un pregiudizio generazionale più che una seria analisi della situazione. In molti casi – compreso il mio – li ho visti usare come un alibi, una foglia di fico dietro cui si nascondevano i problemi veri. Come accennavo, quando ho smesso di accumulare videogiochi nel mio bisogno compulsivo di collezionare più esperienze possibili per avere una sorta di ”controllo culturale” che evidentemente risponde a qualche mia lacuna psichica… Ho semplicemente iniziato ad accumulare altro. Quindi il problema NON erano i videogiochi, ma qualcosa che li usava per nascondersi. Lo stesso mi è capitato di vedere con i ragazzi, casi di sospetta ”dipendenza” da apparecchi elettronici che nascondevano la fuga da relazioni familiari poco sane e funzionali, che l’abuso dei giochini aiutava a non affrontare. Quando c’è un abuso, quando un ragazzo sta tutto il tempo davanti ai videogiochi ed è disinteressato al resto del mondo, un problema certamente c’è, ma oso sospettare che sia quasi sempre ben più profondo e insidioso di questo presunto superpotere del medium capace di fagocitare i ragazzi. È che quando nella mente o nell’anima c’è uno squilibrio o un disordine si cerca naturalmente uno sbocco, lo si incanala da qualche parte, che può essere il videogioco come la pastasciutta, la masturbazione come il cellulare, l’autocommiserarsi davanti ai figli come l’insulto rabbioso tra i commenti di facebook. Io sono persuaso che non serva, e anzi possa essere controproducente, insegnare ai bambini che ”i videogiochi fanno male”, anche se certamente non vanno lasciati soli con strumenti così potenti e vanno aiutati a riconoscere gli eccessi e i loro sintomi. La cosa più importante non è tuttavia nemmeno questa: per non dover lavorare sul danno già fatto è necessaria la prevenzione. E la prevenzione fa a pugni con l’ansia di chi ha paura di chissà che potrebbe succedere. La prevenzione per questo genere di problemi è la disciplina, una disciplina sana e armoniosa. I nostri ragazzi hanno bisogno di imparare a vivere in maniera ordinata, dando il giusto posto e il giusto peso alle varie cose che fanno parte della loro vita, senza giudicarli incapaci di raggiungere quel traguardo privandoli della libertà di apprezzare ciò che a loro piace e che non è un male in sé. Se ad una certa età questo obiettivo non si riesce a conseguire, se il naturale disordine adolescenziale non viene riassorbito nella forma adulta, allora bisognerà impegnarsi per aiutarli a scoprire qual è il problema che va affrontato: la persistenza anche in seguito agli opportuni stimoli formativi di un’eventuale abuso dei videogiochi, come sintomo, dovrà aiutarci a risalire (preferibilmente con l’aiuto di qualche professionista che sappia quello che fa) alla causa, che con tutta probabilità sarà un nodo affettivo o relazionale.

Come vedete ho scritto già molto, ma non credo di essermi dilungato: la questione è complessa, e credo che sia un errore volerla semplificare. Soprattutto parlando di ragazzi e con i ragazzi, ritengo che dovremmo evitare con tutte le forze di cadere nella banalità.

Se abbiamo a che fare con un giovane che si priva di dimensioni importanti della sua vita, non cadiamo nel facile errore di dare la colpa alle cose belle che gli rimangono. È importante piuttosto farsi prossimi a lui, capire perché il mondo esterno non lo attrae più e aiutarlo a trovare dei buoni motivi (non auto-colpevolizzanti) per appassionarsi anche ad altre cose, diventando capace di scegliere se un pomeriggio preferisce stare a casa con i videogiochi o andare all’oratorio. Quello di cui ha bisogno è qualcuno che lo accompagni a scoprire la necessità del discernimento, di prendere in mano la propria vita orientandola nella direzione che il Signore ha scelto per noi, dando il giusto spazio alle cose di cui abbiamo bisogno (compresi le nostre passioni e i nostri passatempi, specialmente se abbiamo 16 anni e non siamo monaci!) e la giusta priorità ai doveri. I ragazzi ci saranno grati se con il nostro aiuto saranno diventati uomini solidi e completi, non se gli avremo riempito la testa di sensi di colpa perché “il mondo reale è là fuori e insomma tu stai sprecando la tua vita, hanno ragione quelli che ti danno dello sfigato”. La vita si può sprecare anche là fuori, se si punta il bersaglio sbagliato. E il Signore può parlare anche attraverso un videogioco (come fa con le altre opere dell’ingegno umano) se si tiene il cuore aperto alla sua voce. O saremo forse giudicati su quanto spesso abbiamo perso l’occasione di andare in discoteca con gli amici?

Più concretamente, parliamoci con i nostri ragazzi. Parliamo anche del loro interesse per i videogiochi, senza dare l’impressione che lo facciamo per correggerli e castigarli. Sono più intelligenti e saggi di quanto pensino tanti adulti, e sanno riconoscere le loro fragilità quando non li si costringe a stare sulla difensiva. Se abbiamo l’impressione che stiano sprecando il tempo prezioso della loro giovinezza, non accusiamoli di questo: chiediamogli piuttosto se davvero li rende felici passare il loro tempo così come fanno, se credono che sarebbero felici continuando così per tutta la vita, se sentono che c’è quel ”non so che” che manca a farli sentire compiuti come vorrebbero.

I videogiochi non sono tutto nella vita, anzi non sono quasi niente, ma che li lascino andare per qualcosa per cui vale davvero la pena di ridurre il tempo passato a giocare, o addirittura di smettere, e non perché mette in luce la pochezza e la vanità di un passatempo, ma perché riempie la vita di una gioia piena e inossidabile, che sopravvive allo spegnimento della console e persino alla morte.

Un cristiano può giocare ai videogiochi? 2
Michele Silvi