Questo è un paradosso antico: “chi perderà la propria vita, la salverà”

«A nulla giova un’azione esterna compiuta senza amore; invece, qualunque cosa, per quanto piccola e disprezzata essa sia, se fatta con amore, diventa tutta piena di frutti».
L’imitazione di Cristo
La morte a sé stessi, l’uscire da sé stessi non coincide con l’annullamento di sé per far spazio all’altro. Piuttosto è un donare la propria vita, un donare la vita che si ha. È un donare la vita che abbiamo ricevuto. Gesù non si è incarnato, non ha assunto spoglie mortali per venire semplicemente a morire. È venuto per dare la vita (certo, fino alla fine), la sua vita, la vita di Dio che Egli è, proprio per questo l’ha data fino alla fine.
Per poter donare questa vita occorre innanzitutto riceverla e possederla. Che cosa mi dà vita? Dove innanzitutto ricevo vita? Che vita perciò posseggo?
Rimanere, osservare, andare (Gv 15,9-17).
È possibile uscire da sé solo se vi è una dimora; è possibile morire a sé stessi solo se si ha vita. Uscire da sé per non avere affatto una dimora, morire a sé stessi fino a non avere più vita a che, a chi gioverebbe?
Al tempo stesso chi si accontentasse solo di se stesso «e quindi meno di se stesso, è come in prigione. I miei occhi non mi bastano, voglio vedere meglio attraverso gli occhi di altri. L’impulso originario di ognuno di noi è quello di preservare e di sviluppare noi stessi il secondo impulso è quello di uscire da se stessi, correggere il proprio provincialismo e guarire la propria solitudine. Facciamo tutto questo in amore, nell’azione virtuosa, nella ricerca della conoscenza e nella ricezione di ogni arte. Ovviamente questo processo può essere descritto sia come un ampliamento che come un annullamento temporaneo di se stessi. Ma questo è un paradosso antico: “chi perderà la propria vita, la salverà”[1].
Usciamo dalla dimora di noi stessi, compiamo persino il giro del mondo come l’Innocenzo Smith, l’UomoVivo di Chesterton, per tornare ad abbellire, ad ornare, a generare, ad amare più intensamente la nostra dimora.
«Casa mia “L’ho abbandonata” disse con molta malinconia. “Non era la casa che è diventata stupida, ero io che stavo diventando stupido dentro di essa. Mia moglie era la migliore di tutte le donne, e io non riuscivo più ad accorgermene” […] ”Io sono un uomo che ha abbandonato la propria casa perché non poteva più sopportare il fatto di esserne lontano […]. Sentivo mia moglie e i bambini che parlavano tra loro, li vedevo muoversi per le stanze, ma capii che per tutto il tempo loro stavano camminando e stavano parlando in un’altra casa lontana migliaia di miglia, sotto la luce di altri cieli, e al di là di tutti i mari. Io li amavo di un amore divorante, perché loro non solo mi sembravano distanti, ma addirittura irraggiungibili. Mai creature umane mi sembrarono così care e così desiderabili: ma io mi sentivo come un freddo fantasma. Li amavo immensamente, e per questo non potevo più rimanere un semplice spettatore della loro esistenza. Non solo fuggii, ma feci di più. Spinsi il mondo sotto i miei piedi, e lo feci girare intorno come una mola da tortura”.
“Vuole davvero dirmi che lei ha appena fatto il giro del mondo?”.
“Il mio pellegrinaggio non è ancora terminato. Sono diventato un pellegrino per guarirmi dall’essere un esiliato”»[2].
Viceversa apriamo le porte della nostra casa, della dimora della nostra persona, del nostro cuore, lasciando aperto l’uscio a chiunque vi voglia liberamente entrare, persino anche a chi vi capitasse per sbaglio o semplicemente a chi stesse passando di lì per caso, esattamente per la stessa ragione. Sono due movimenti che si generano a vicenda.
C’è un immagine che torna vivida alla mia memoria e che trasforma l’ospitalità ricevuta e donata in nutrimento reale. Il pellicano simbolo di Cristo che letteralmente dona il suo cuore a nutrimento dei suoi, di chi desideri e voglia stare con Lui e in Lui. Quest’immagine si avvicina di più allo stile cavalleresco che ho ricevuto e fatto mio in questi anni, io che non sono altro se non uno dei piccoli che partecipa del medesimo nutrimento, del medesimo dono di Cristo. Tutta la vita, sta, ha il suo fondamento, si radica in questa donazione di vita da parte di Cristo, l’Eucaristia, Lui stesso realmente presente in quello che cessa di essere frammento di pane di cui un mio carissimo amico un giorno di non troppo tempo fa disse, anche se in forma eterodossa, «Gesù viene da me ogni giorno, ogni giorno nella più umile delle forme, come un piccolo bambino, come un uccellino, come un agnello: no, molto di più. “Eccomi. Chiedo solo di essere un pezzo di pane, per stare vicino a te. Posso?”».
Questa morte e spoliazione di sé, questo uscire dalla dimora del proprio io, questa ospitalità accogliente e dono di sé sono possibili solo se effettivamente c’è in me una vita, una veste, una casa, un ospite, un io. Lasciamoci dunque ravvivare, rivestire, dimorare, ospitare, inmiare[3]:
«La presenza eucaristica nel tabernacolo non pone un concetto diverso di Eucaristia accanto o contro la Celebrazione eucaristica, ma ne significa solo la piena realizzazione, Questa presenza, infatti, fa sì che nella chiesa vi sia sempre Eucaristia. La chiesa non diventa mai uno spazio morto, ma è sempre ravvivata dalla presenza del Signore che deriva dalla Celebrazione eucaristica, ci introduce in essa e ci fa sempre partecipe all’Eucaristia cosmica. Quale persona credente non l’ha sperimentato? Una chiesa senza presenza eucaristica è in qualche modo morta, anche se invita alla preghiera. Una chiesa, invece, in cui davanti al tabernacolo brilla la luce perenne, è sempre viva, è sempre qualcosa di più che un edificio di pietra: in essa c’è sempre il Signore che mi aspetta, mi chiama, vuole rendere anche me “eucaristico”»[4].
[1] C. S. Lewis, Un’esperimento di critica
[2] G .K. Chesterton, UomoVivo.
[3] “Già non attendere’ io tua dimanda,
s’io m’intuassi, come tu t’inmii“. Dante, Paradiso, IX.
[4] Joseph Ratzinger – Benedetto XVI, Introduzione allo spirito della liturgia.
Immagine tratta da:
metmuseum.org
Francesco Tosi: 1986 Rimini, avevo così voglia di vivere che sono nato prima di nascere (al quinto mese), poi ho continuato a nascere e rinascere nel corso della mia vita, in spirito, acqua e sangue.
Filosofo per forma mentis e formazione, letterato e Teo-filo per passione, editore digitale per professione, fanno di me un cultore del verbo e servitore della parola (altrui).
Autore di tesi di laurea su un cardinale della Chiesa Cattolica, ex gesuita, von Balthasar, e su un letterato anglicano, Lewis che hanno in comune una visione teo-drammatica dell’esistenza, sto ultimamente dilettandomi nella loro revisione e pubblicazione.