Non entreranno nel luogo del Mio riposo

Ascoltate oggi la sua voce: «Non indurite il cuore, *
come a Merìba, come nel giorno di Massa
nel deserto,
dove mi tentarono i vostri padri:
mi misero alla prova, *

pur avendo visto le mie opere. (Ant.)

Per quarant’anni mi disgustai di quella generazione
e dissi: Sono un popolo dal cuore traviato, *

non conoscono le mie vie;
perciò ho giurato nel mio sdegno: *
Non entreranno nel luogo del mio riposo.

Il Catechismo Maggiore di san Pio X[1] insegna che il dolore dei peccati, il dolore, il profondo dispiacere, la profonda tristezza per l’offesa recata a Dio, per l’offesa recata all’amore di Dio, per la sottrazione dall’amore di Dio, per lo strappo dal rapporto, dalla comunione con Dio è di due tipi: perfetto e imperfetto, di contrizione e di attrizione.

La contrizione, cum-tritus, è un essere consumato con, è la mortificazione dell’animo per il peccato, o meglio, per il tradimento dell’amore di Dio, è già all’interno del rapporto con Dio, della comunione con Lui, permane nella sua Grazia. Un esempio di questo tipo di dolore per il male commesso è il pianto di lacrime amare in cui Pietro scoppia dopo aver rinnegato tre volte Gesù e averne fissato lo sguardo mentre viene portato via; è quel pentimento che non nega a Pietro di continuare a seguire la via della Croce di Gesù, seppur alonge, da lontano. Nelle visioni di Caterina Emmerich Pietro piangendo amaramente si getta ai piedi della Vergine per ottenere perdono. È il pentimento pieno che desidera tornare nel dolce abbraccio di Cristo.

Viceversa l’attrizione, attritus, è una consunzione, è un essere logorati dal male, a causa di, per, e nel male medesimo. È l’accusa della consunzione stessa, è l’accusa dello stato di miseria in sé medesimo, è l’accusa dell’inferno in cui ci si è cacciati, è l’orrore per il proprio male e del male stesso. Questo tipo di consunzione non è ancora nell’orizzonte della relazione con Dio, ma una constatazione dell’orripilanza del male medesimo e del suo naturale sfociamento, del suo naturale incancrenirsi, del suo naturale e progressivo scavarsi la fossa dell’inferno che già è. È l’accusa del peccato e una presa di distanza da esso, un non volerlo più fare per le conseguenze che arreca alla propria persona e non ancora la tristezza di essere venuti meno alla dolce presenza di Cristo.

È quel tipo di pentimento che permette a Giuda[2] di riconoscere l’orrore per il tradimento di sangue innocente, l’orrore per il male commesso e l’intenzione di porvi rimedio riportando indietro i 30 denari nel tentativo di ottenere indietro Gesù, ma che al tempo stesso non lo fa muovere verso Cristo, per domandare a Lui perdono. L’attrizione richiede di essere trasformata, perfezionata in contrizione nell’atto di dolore «e molto più perché ho offeso te, infinitamente buone e degno di essere amato sopra ogni cosa […] propongo di non offenderti mai più e di fuggire le occasione prossime del peccato» e nell’assoluzione del sacerdote. Se non si esce dalla confessione con questi sentimenti di contrizione non si può parlare di riconciliazione, di un’essere tornati veramente nella comunione con Cristo.

Come muoversi dunque,  essere mossi dall’attrizione alla contrizione? Non è affatto semplice. Un piccolo suggerimento e un breve spunto di riflessione me lo ha offerto la chiusa del salmo 95: «Non entreranno nel luogo del mio riposo». Così leggevo al termine del salmo dirigendomi verso il Duomo di Milano intento a confessarmi. Una tristezza senza nome, una commozione profonda si è impadronita di me, una stretta al cuore. «Non entreranno nel luogo del mio riposo».  

Questo giuramento che Dio pone contro coloro il cui cuore si è traviato al punto da diventare duro come pietra permette di fare un passo in più rispetto al semplice timore/tremore/terrore dell’inferno.

Andare all’inferno significa qui non entrare nel luogo del riposo di Dio, privarsi del luogo della vita eterna, della vita stessa, della vita vera, della vita della Trintà, del riposo pieno della vita di Dio.

«Non entreranno nel luogo del mio riposo».
L’accento si sposta dal polo negativo al polo positivo. La pena dell’inferno è un dolore immenso, inconsolabile, un vuoto incolmabile, un orrore atroce. Ma di che cosa si tratta? È l’inconsolabile distanza, il distacco più bruciante dalla vita piena, dalla vita vera, dal riposo vero della comunione con Cristo , dal vivere pienamente in Lui, del rimanere, del riposare finalmente in Lui. 


[1] 707-713

[2] Chi si scrolla di dosso il Suo «dolce giogo», non giunge alla libertà, non diventa libero, ma diventa invece schiavo di altre potenze – o piuttosto: il fatto che egli tradisce questa amicizia deriva ormai dall’intervento di un altro potere, al quale si è aperto.
Tuttavia, la luce che, provenendo da Gesù, era caduta nell’anima di Giuda, non si era spenta del tutto. C’è un primo passo verso la conversione: «Ho peccato», dice ai suoi committenti. Cerca di salvare Gesù e ridà il denaro (cfr Mt 27, 3ss). Tutto ciò che di puro e di grande aveva ricevuto da Gesù, rimaneva iscritto nella sua anima – non poteva dimenticarlo.
La seconda sua tragedia – dopo il tradimento – è che non riesce più a credere ad un perdono. Il suo pentimento diventa disperazione. Egli vede ormai solo se stesso e le sue tenebre, non vede più la luce di Gesù – quella luce che può illuminare e superare anche le tenebre. Ci fa così vedere il modo errato del pentimento: un pentimento che non riesce più a sperare, ma vede ormai solo il proprio buio, è distruttivo e non è un vero pentimento. Fa parte del giusto pentimento la certezza della speranza – una certezza che nasce dalla fede nella potenza maggiore della Luce fattasi carne in Gesù.
Giovanni conclude il brano su Giuda in modo drammatico con le parole: «Egli, preso il boccone, subito uscì. Ed era notte» (13,30). Giuda esce fuori – in un senso più profondo. Entra nella notte, va via dalla luce verso il buio; il «potere delle tenebre» lo ha afferrato (cfr Gv 3,19; Lc 22, 53).
Joseph Ratzinger_Benedetto XVI – Gesù di Nazaret **

Francesco Tosi: 1986 Rimini, avevo così voglia di vivere che sono nato prima di nascere (al quinto mese), poi ho continuato a nascere e rinascere nel corso della mia vita, in spirito, acqua e sangue.
Filosofo per forma mentis e formazione, letterato e Teo-filo per passione, editore digitale per professione, fanno di me un cultore del verbo e servitore della parola (altrui).
Autore di tesi di laurea su un cardinale della Chiesa Cattolica, ex gesuita, von Balthasar, e su un letterato anglicano, Lewis che hanno in comune una visione teo-drammatica dell’esistenza, sto ultimamente dilettandomi nella loro revisione e pubblicazione.