Grazia o non Grazia… Questo è il problema

Stamane, spinto dal bisogno del perdono divino, mi son recato in una delle tante chiese della mia città, in una di quelle dove so per esperienza che qualche prete ancora esercita il suo ministero di confessore. Come spesso capita, mi son dovuto e voluto confessare di peccati frequenti, e che più di altri possono creare dolore e pena per l’offesa arrecata a Dio e per aver così rotto il legame di amicizia con Cristo. Magari avessi sempre forte e intenso il dolore e l’amarezza del peccato che, come dicevano i grandi Padri del deserto, è l’unica cosa di cui bisogna essere tristi nella propria vita!
Prima di accostarmi al sacramento, come spesso mi accade, mi son domandato come mai, per quali motivi son arrivato a cadere, nonostante l’attenzione che avevo riposto nella mia vita a crescere nell’amore di Dio e nella fedeltà a Cristo. Lo sconforto può essere uno dei tanti sentimenti che questo esame crea nell’animo umano, come anche la disperazione, il percepire come inutili tutti i tentativi passati. Conoscendomi mi son detto: “ Caro Bernardo, sai quanto la fatica o lo stato fisico possano influire sulla tua vita!” Per quanto vera potesse essere questa affermazione, non volevo e potevo nascondere il mio errore e la mia poca vigilanza dietro a misere giustificazioni.
Volevo essere trasparente davanti a Cristo, nella preghiera come nella confessione.
E così mi son fiondato dentro al confessionale. Ebbene, nell’ammettere le mie colpe davanti al sacerdote, mi son sentito rivolgere alcune parole, che forse altre volte avevo sentito, data la frequentazione assidua della Chiesa dentro alla mia vita, ma che poche volte avevano trovato un terreno fertile su cui poter germogliare.
Appena terminata l’accusa dei peccati, il prete mi guarda, passa qualche secondo e mi dice: “Caro ragazzo, i tuoi peccati non sono solo quelli di cui ti sei accusato, perché un altro ancora si aggira sotto quello che mi hai detto: tu non ha confidato nella Grazia del Signore!”.
Quante volte mi sono sentito rivolgere parole riguardanti la fiducia da riporre nel Signore, che l’uomo non può nulla da solo, eccetera eccetera. Personalmente la questione mi ha sempre intrigato ma, come nella parabola del seminatore, spesso il terreno è asfaltato e la bellezza di questa verità suscita un velato retrogusto di gioia che pur tuttavia non produce l’effetto che il Salvatore voleva. Altre volte il terreno è invece quello sassoso, per cui subito si corre e si cerca di capire cosa vogliano davvero significare le divine parole, ma le “necessità” della vita, gli imprevisti e i doveri molto spesso, anzi sempre, non hanno permesso a questa verità di lavorare, così tutto poco dopo veniva messo da parte.
Invece in questo periodo di riposo la questione non è riuscita a scivolare via, ma come un tarlo, sta continuando a pungolare l’anima.
Come ricevere la grazia del Salvatore Gesù? E nello stesso tempo, come deve comportarsi la nostra libertà nel rispondere ad essa? Grazia e libertà, una delle questioni più spinose che la Santa Chiesa di Dio cela al suo interno.
Dato che le parole della Sacra Scrittura sull’argomento vanno da un estremo all’altro, soprattutto paragonando le affermazioni dell’Antico Testamento con quelle di Cristo e di San Paolo nel Nuovo, la questione teologica diventa assolutamente affascinante.
Ma soprattutto mi sconvolge leggere ogni volta le lettere paoline, perché sono proprio queste che contengono la risposta a questa domanda. Nella lettera ai Galati, ma soprattutto in quella ai Romani, ma riferimenti sull’argomento sono in quasi tutte le sue lettere, san Paolo descrive la salvezza portata da Cristo! Siamo davanti a uno sconvolgimento totale di quello che era la prospettiva ebraica della salvezza, della giustificazione. La storia del popolo giudaico ha visto col passare dei secoli profondi mutamenti in fatto di religione, soprattutto nel modo in cui rapportarsi con il proprio Signore. All’inizio la discendenza abramitica fondava l’identità del popolo: le promesse fatte al grande patriarca, di una discendenza, di una terra nella quale stabilirsi erano, nell’immaginario primitivo del popolo, la grande aspettativa, il vero traguardo da raggiungere. Anche il rapporto che Abramo e i suoi discendenti ebbero con Jahvè stabilì una monolatria, cioè la scelta di un solo dio da venerare, rispetto al panorama religioso mesopotamico, dove molte erano le divinità venerate. Siamo ancora in una religiosità arcaica, eppure quella fedeltà di Abramo segna l’inizio di qualcosa di nuovo.
Dopo questa prima fase, l’arrivo di Mosè e l’alleanza sinaitica segnarono indelebilmente l’identità cultuale giudaica: le tavole della Legge, con gli ordinamenti, i decreti, le disposizioni di cui vediamo riempiti i libri del Pentateuco, erano la base per l’ideale del giusto israelita. I grandi codici legislativi presenti dentro al Pentateuco testimoniano lo sviluppo teologico della fede israelita, che diventava anche più moralistica (nel senso buono del termine). Questi testi servivano per regolare i rapporti quotidiani tra le persone e con il loro Dio, e ci vollero secoli perché acquisissero quella pregnanza che vediamo testimoniata dai farisei dentro ai Vangeli.
La conquista della Terra promessa risollevò le sorti del popolo, ma questo idillio non doveva durare: la dura cervice degli ebrei si fece ben presto riconoscere durante le vite dei Giudici d’Israele. Questi uomini scelti da Dio per guidare il popolo che continuamente si traviava, abbandonava Dio e la Legge, idolatrava i Baal e dimenticava Jahvè, cercarono continuamente di richiamare con le opere e le vittorie contro i popoli nemici che la salvezza degli ebrei si trovava in Dio, ma la poca memoria degli Israeliti non poté molto, e nel giro di una generazione abbandonava nuovamente il Signore. Fu proprio durante il periodo dei Giudici che si commise il fattaccio: Jahvè si vedeva continuamente preso in giro da questo popolo che dimenticava l’alleanza che aveva sancito sul Sinai, per questo la terra di cui tanto andavano fieri non sarebbe rimasta a lungo sotto i loro piedi.
L’arrivo della monarchia fu essa stessa un ulteriore tradimento: Dio era il loro re, e abbassarsi a chiedere un sovrano terreno come gli altri popoli circostanti era ancora una volta un abbandono della retta fede. Nonostante questo Davide e Salomone furono una breve benedizione per il popolo: Davide conquistò tutta la terra e Gerusalemme e Salomone costruì il Tempio, luogo centrale del culto, ma il peccato con Betsabea del primo e la tardiva idolatria del secondo procurarono la scissione del Regno in due blocchi, quello del Nord, Israele, e quello del Sud, Giuda. Questi regni videro l’invio dei profeti, che dovettero richiamare da una parte all’altra della Terra promessa il popolo eletto alla vera fede, ma senza successo, anzi vedendo un progressivo allontanamento da Jahvè, (basti pensare al profeta Elia, rimasto solo al servizio di Dio Cfr. 1Re 20, 22). Ma con i profeti iniziò qualcosa di nuovo, come vedremo poi.
L’arrivo dei profeti, fin da Samuele, doveva introdurre una concezione nuova della fede giudaica, ma solo col tempo poteva essere inteso dentro al popolo. I profeti di entrambi i regni umanamente parlando fallirono nella loro missione: Samaria venne saccheggiata nel 722, Gerusalemme neanche 200 anni dopo, nel 586, fu devastata dalle truppe di Nabucodonosor. Il Tempio, gloria del popolo di Jahvè, luogo dove continuamente i Giudei potevano essere ascoltati, centro della religiosità di tutte le tribù, venne distrutto, saccheggiato, nulla di tutto quello che Salomone aveva edificato rimase in piedi. Il fulcro dei sacrifici, di tutto quello che i giusti ebrei dovevano compiere per salvarsi, veniva levato loro. Non possiamo neanche minimamente comprendere l’importanza di quell’edificio dentro alla mentalità giudaica. L’esilio cambiò tutto: se prima, come detto, la fede in Jahvè gravitava attorno al Tempio, alla Terra promessa, ora che il popolo veniva costretto a lasciare la sua terra e vedere il suo luogo di culto devastato doveva trovare in altro il fondamento della fede. Cosa rimaneva agli eletti del Signore senza un re, senza il sacerdozio, senza il Tempio, senza la terra degli antenati?
Ciò che restava era la Legge stessa, la Torah, la Parola di Dio che garantiva la presenza del Signore anche in terra straniera, anche in mezzo alle genti pagane. In quasi ottant’anni la fede iniziò a gravitare attorno ai libri che Mosè, i profeti e gli scrittori sacri avevano lasciato, o almeno ai quei primitivi scritti dai quali poi sorgeranno gli attuali testi sacri che abbiamo tra le nostre mani.
Anche dopo il ritorno permesso sotto Ciro, e anche dopo la costruzione del secondo Tempio, la fede del popolo sarà principalmente riposta nei testi sacri, che li avevano accompagnati in quei tanti anni di esilio. È in questo momento che abbiamo un passaggio fondamentale: dalla fede nel sacrificio del Tempio a quella nella solidità della Legge. Nel primo periodo post-esilico, con il ritorno in patria, sorsero una nuova stirpe di profeti, come Aggeo, perché ristabilissero una rinnovata speranza, quella nel ristabilimento della monarchia, non però degli antichi regni, bensì quella messianica, quella promessa sin dai tempi davidici, che portasse a compimento le speranze ormai assopite del popolo. Con la morte dell’ultimo profeta, Zaccaria, le sorti del popolo non trovarono migliore soluzione: per più di duecento anni il dominio persiano prima ed ellenistico poi creò non pochi problemi agli abitanti della Giudea, tanto da spingerli a ribellarsi, facendo così sorgere i Maccabei, la dinastia che poi arrivò a governare la Giudea e i territori circostanti nel periodo precedente all’arrivo dei Romani.
Questa carrellata storica, così breve e concisa, è necessaria per mettere le basi al nostro discorso. La fede fondata inizialmente sulla discendenza abramitica, subì lentamente ulteriori arricchimenti, prima con la Legge, l’appartenenza alla terra promessa da Dio, con l’arrivo prima della tenda e poi del Tempio, vide questo come fulcro della vita religiosa e i profeti, come dicevamo, dovettero intervenire per salvare il nucleo della fede in Jahvè: non era solo compiendo riti e sacrifici che si arrivava a Dio e alla giustizia, ma con un atteggiamento interiore, che coinvolgesse il cuore e non solo l’esteriorità. Ma questo richiamo veniva disatteso nel peggiore dei modi, giungendo anche a idolatrie e abusi religiosi. Il successivo passaggio fu quello che avvenne durante l’esilio, dove rimaneva solo la Torah ai pii ebrei. Nell’adempimento della Legge potevano salvarsi i fedeli giudei, ogni piccolo precetto in essa contenuto per loro garantiva il favore del Signore.
I profeti, come accennato sopra, tentarono di puntare l’attenzione del popolo su un altro punto di vista: non poteva salvare la ritualità se da essa non proveniva poi un cambiamento, la ricerca della giustizia e di un vero rapporto con Dio. Ma i profeti rimasero inascoltati e i frutti non tardarono ad arrivare.
In questa prima analisi della Sacra Scrittura siamo arrivati al primo traguardo del nostro discorso: la grazia del Signore viene strumentalizzata da un determinato comportamento, la Legge, che sembra garantire in se stessa la benevolenza del Signore e la certezza della salvezza. La Legge in sé è buona, anzi è la via della salvezza, così come il Signore aveva voluto, ma se veramente ne viene compreso lo Spirito: come ricorda anche san Paolo nella 2 lettera ai Corinzi: la lettera uccide, lo spirito vivifica. Cioè, non basta seguire pedissequamente una regola, se da essa viene eliminato il cuore, la ragione per cui si segue. Questo era diventata la Legge per molti degli ebrei, e rischiamo anche noi cattolici di fuggire dentro questa ottica.[1]
Questa è l’illusione del fariseo al Tempio (Lc 18, 9-14), dei farisei in quanto tali: pensare che le buone azioni siano l’unica cosa importante nella vita del fedele ebreo prima e nel fedele cristiano poi.
Questa tentazione così forte anche nell’animo di noi cristiani deve cedere il passo ad altro, a un altro tipo di mentalità, più prettamente cristiana, che non metta da parte le buone azioni, ma che le inserisca al giusto posto. Il racconto del giovane ricco ce lo dimostra: non basta seguire tutti i comandamenti, infatti Gesù ingiunge a quell’uomo di dare tutto ai poveri e di seguirlo, cioè camminare dietro a Lui, in un rapporto vero e vivo con Lui. Questo era il richiamo dei profeti, da Isaia fino ad Amos: tutti costoro, parlando in nome del loro Dio, testimoniavano la necessità di una vita di fede interiore, non basata solo sulla ritualità o, come al tempo di Gesù, sulla fedeltà alla Legge.
Il
diritto, la giustizia che riempiono i testi profetici non sono altro che la
conversione che deve scaturire dal rapporto con Dio, affinché le pratiche
esteriori introducano anche nel cuore la devozione, l’amore per Dio. Questo è
il grande rischio della religiosità legalistica.
[1] Se venisse seguito profondamente il primo comandamento del Decalogo ( si veda Mt 22, 37-40, sul comandamento dell’amore) tutta la Legge antica in realtà troverebbe il “Cuore” che il Nuovo Testamento non fa che richiamare. Infatti, se si seguisse veramente e “letteralmente” la Legge, il richiamo neotestamentario a quest’ultima non avrebbe avuto luogo, (si abbia presente Mt 5,17, sul compimento della Legge), tenendo però a mente che la novità portata da Cristo, cioè se stesso, è qualcosa di non paragonabile con tutta la rivelazione passata (ci si ricordi del giovane ricco, Mt 19, 16-22, dove è richiesta la sequela di Cristo stesso per aver la perfezione).
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